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La terapia ai tempi del Coronavirus:

Libere riflessioni di una terapeuta

A cura di Silvia Pozzi

Ho già scritto a proposito della terapia on line, via Skype, Zoom o altre piattaforme simili e ho riscontrato una netta reticenza da parte dei miei pazienti e – non lo nascondo – anche mia.

Ho bisogno di avere un contatto vis à vis con la persona, di vederla dal vivo, perché mi senta e io possa sentire lei, chiudendo fuori dalla porta dello studio tutte le variabili esterne e stare in un ambiente ufficiale non connotato personalmente come la propria casa.

La psicoterapia non è semplice nell’era dello smart working: non si fanno meeting, non si tengono contatti con clienti né se ne creano di nuovi proponendosi al di là di uno schermo, non si può parlare di transfert o controtransfert con un PC di mezzo, ma può - forse - servire per tenere i contatti in questi mesi così caotici. Ho riscontrato che i più comuni disturbi come l’ansia o la depressione sono massicciamente presenti se non addirittura peggiorati, ma le persone anche se stanno peggio hanno ancora troppa paura per uscire di casa, perché il virus può ucciderti mentre all’ansia puoi anche sopravvivere (soprattutto se ci sei abituato).

Sulla base di molti anni di esperienza con casi estremamente difficili sono arrivata alla ferma convinzione che, impegnandosi con dedizione, i terapeuti riescono a fare molta prevenzione con un vasto range di disturbi: evitano episodi psicotici, suicidi e omicidi e teniamo la gente fuori dagli ospedali o le comunità. Sfortunatamente questi effetti psicoterapeutici fondamentali sono del tutto privi di documentazione, dato che nessuno potrà mai dimostrare di aver impedito un disastro e di solito i critici della terapia analitica affermano che, se qualcuno dichiara di aver prevenuto ad esempio un episodio psicotico, in primo luogo il paziente non era davvero incline alla psicosi.

Se sommiamo ciò sopra detto alla generale diffidenza dovuta alla disinformazione in Italia sulla psicoterapia possiamo comprendere come validi professionisti siano da 2 mesi in gravi difficoltà economiche: su tutti i media si discute di quanto siano necessari gli psicologi per i pazienti e per i loro familiari nonché per gli operatori sanitari, ma lo Stato non li assume o – anche se dichiarato in qualche TG – non esistono bandi o concorsi ad hoc a cui candidarsi come fatto per infermieri e OSS.

La psicoterapia è come una chimera: esiste, qualcuno ne sa qualcosa, ma nessuno sa bene come sia fatta o come funzioni.

Spesso mi succede di ripetere ai miei pazienti che se ricevessi un euro per tutte le volte che ho sentito dire: “Perché dovrei andare dallo psicologo, io? Mica sono matto!” mi sarei già ritirata da milionaria.

L’Italia è un paese che fatica a staccarsi dai pregiudizi: la malattia mentale è ancora vista come una situazione di comodo per non lavorare e ottenere agevolazioni dallo Stato e viene stigmatizzata perché nelle forme più gravi fa davvero paura, peggio del cancro o del Covid, dato che siamo in tema.

Scegliendo psicologia come facoltà universitaria avevo immaginato che non avrei avuto vita facile, ma la frustrazione più grande da psicoterapeuta – dopo aver studiato tanti anni quanti un laureato in medicina e chirurgia – è il non venire riconosciuta dallo Stato e di conseguenza da tanti potenziali clienti che ancora pensano che io abbia la cassetta degli attrezzi in studio o la pillola tipo Matrix.

Lo scopo della terapia, spiegato grezzamente, è lo sviluppo di un senso di sé integrato – se deficitario – complesso e affidabile e, nei casi più evoluti, nell’accettazione del proprio sé come la migliore risposta dell’individuo alla propria storia affinché venga positivamente rivalutato. Parallelamente a questo processo evolve anche la capacità di amare pienamente gli altri – e se stessi – nonostante difetti e contraddizioni. È un percorso molto complesso, lungo e pesante perché la persona deve essere disposta a investire sia economicamente che personalmente su di sé.

Sottoporsi a un’analisi è un impegno morale. L’individuo deve raggiungere nella propria vita quello stadio in cui sente di non poter più seguire la strada percorsa nel passato, sente la necessità di confrontarsi con se stesso in assoluta onestà e verità: questa è veramente una decisione morale che l’individuo prende e ritengo che sia una condizione essenziale per l’analisi.

Semplificando, ecco ciò che succede: usiamo ciò che abbiamo creato del nostro passato per giustificare ciò che usiamo nel presente. L’analisi diventa lo sforzo di completare, per quanto è possibile, l’intera storia in un modo da avere un’autobiografia tridimensionale per arrivare a dire: “quando sono venuto in analisi, vedevo mia madre (o mio padre o mio fratello) in questa luce, ma ora mi accorgo di tutte queste altre prospettive che mi danno un immagine più realistica di loro, del mio modo di interagire con loro, e del mio contributo al modo in cui interagivo con loro che mi hanno portato a vederli in un certo modo in un particolare momento della mia vita”.

I pazienti hanno bisogno di un qualche ambiente di sostegno, ma non sempre hanno bisogno che si faccia qualcosa per loro. A volte si deve semplicemente lasciare che i pazienti stiano li, lasciarli essere e lasciare che trovino quello che c’è.

In una società in cui gli adulti non riescono a trovare abbastanza tempo per ascoltare con sensibilità le esigenze dei bambini, in cui le persone cambiano continuamente residenza, in cui il divorzio è un fenomeno diffuso e le emozioni dolorose possono essere ignorate perché esistono farmaci capaci di contrastarle artificialmente, non c’è da meravigliarsi che il tasso di depressione e suicidio giovanile sia salito vertiginosamente, che siano in ascesa compulsioni antidepressive come l’uso di sostanze o il gioco, che si osservi un’esplosione di movimenti popolari in cui si riscopre il “bambino perduto” o il “bambino interiore” e che ci sia la diffusa ricerca di gruppi di auto aiuto per ridurre il senso di isolamento e mancanza.

Siamo stati obbligati a mettere tutto in pausa, ma il fatto che le persone non abbiano potuto dare l’ultimo saluto ai loro cari che, usciti la sera con le chiavi di casa per portare a spasso il cane non sono più tornati, avrà un devastante effetto boomerang. I lutti, il lavoro così come le relazioni: niente amici o relazioni sentimentali che, se stabili, devono mantenersi a più di un metro di distanza. L’epidemia ci ha unito a lungo raggio, ma ha compromesso la vicinanza.

Non sembra che gli esseri umani siano stati equipaggiati per gestire tanta instabilità nelle loro relazioni come quella che la vita di oggi propone.

Figuriamoci con l’avvento di una pandemia dove tutto è amplificato.

I professionisti, le “stampelle”, ci sono e hanno sofferto allo stesso modo quindi parliamo la stessa lingua. Vediamo se nel post emergenza la mentalità italiana imboccherà la strada del cambiamento.

8 Aprile 2020, Dott.ssa Silvia Pozzi

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